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Violenza sulle donne e atti persecutori: lo studio sui dati e i fattori psicologici a confronto

La nuova infografica di Unicusano sulla violenza sulle donne in Italia analizza la situazione in cui versa la nostra nazione, andando ad approfondire i profili di carnefici e vittime e il funzionamento degli atti violenti

Sette milioni. Una donna su tre. Sono questi i numeri spaventosi che riflettono la situazione in cui versa l’Italia nel 2023: la violenza di genere esiste, è tra di noi, respira l’aria dei nostri salotti ed è un problema.
Non dovrebbe essere la 101esima vittima dell’anno a ricordarcelo, piuttosto il grido di allarme, sempre più preoccupato e preoccupante, delle donne che, ancora oggi, temono il giudizio della società e le ripercussioni del proprio aguzzino e che, sottovoce, imparano, ogni giorno di più, a chiedere l’aiuto di cui hanno bisogno, l’aiuto che le famiglie, gli affetti, la comunità, lo Stato gli devono.

 

Sì, perché se è vero che, oggi, grazie alla Convenzione di Istanbul, l’atto di violenza sulle donne è riconosciuto a tutti gli effetti come crimine contro l’umanità, fino al 1981 era il delitto d’onore a farla da (padre) padrone, mistificando il ruolo della donna e adducendo a giustificazioni pericolose e di stampo patriarcale per gli atti di violenza, fino a quel momento riconosciuti e accettati dal popolo e da chi governava il Paese.

Il tema della violenza sulle donne non dovrebbe conoscere colori politici né discriminazioni di sorta, eppure ci sono voluti 32 anni per arrivare a questo risultato, passando per le prime collaborazioni con i centri antiviolenza (2001), l’inasprimento delle pene per violenza sessuale e l’introduzione del reato di stalking (2009), ed è ancora lunga la strada da percorrere.

 

“È “violenza contro le donne” ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che in quella privata” questo recita l’art. 1 della Dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne, emanata nel dicembre del 1993, questo è ciò che, ancora, la maggior parte delle donne italiane stenta a comprendere.

Lo dimostrano i dati: poco più della metà delle vittime non denuncia il suo carnefice e non lo fa perché, come spiega la psicologa e psicoterapeuta Erica Pugliese, affoga in un rapporto di dipendenza affettiva dal quale non può e non vuole riconoscere i sintomi della propria condizione.
Tensione, esplosione, luna di miele: sono queste le fasi della violenza, che si ripresentano con lo stesso modus operandi in tutte le coppie in cui vige la presenza di un aguzzino.

Le conseguenze del silenzio, però, sono devastanti. Da un lato fisiche e dolorose, dall’altro psicologiche e subdole. Dal disturbo da stress post traumatico alla depressione, dai problemi cardiaci al sanguinamento vaginale (in caso di abusi sessuali).

Ancora più doloroso, tuttavia, è la consapevolezza che circa l’80% delle violenze si verifica tra le mura domestiche, di cui poco più del 50% per mano di partner o ex partner. Numeri inevitabilmente triplicati nel periodo del Covid, in cui, a fianco del virus, si è fatta strada la cosiddetta Pandemia Ombra che ha interessato il 77% delle donne europee.

Non si diventa assassini il giorno in cui si commette un delitto, ha dichiarato il Dr. Paolo Crepet in un’intervista. Ed è vero. Il profilo del carnefice tipo non è chiaro e standardizzato, ma presenza fattori comuni che possono fungere da campanello d’allarme nella potenziale vittima: scarsa autostima, tratti antisociali di personalità, manie manipolatorie, ossessione per i ruoli di genere.

È quest’ultima, invece, a non riconoscere ceti sociali o gerarchie: da un lato vulnerabili e facenti parte di minoranze, dall’altro in carriera e dal carattere forte. Non ha importanza la provenienza: più sarà difficile la sfida dell’addomesticamento, più sarà vista attrattiva dagli occhi del carnefice.

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